CANCELLI A CANCELLI

In questi ultimi anni più volte sono stato invitato a testimoniare la tradizione secolare della mia famiglia, anche alla luce degli scritti di Michele Faloci Pulignani.

Non sono né storico né antropologo e non ritengo nemmeno di dare incarico di ricerca a studiosi competenti in materia per averne magari una spiegazione scientifica. Posso solo narrare le mie esperienze. Dopo la morte di mio padre Marino qualcosa mi ha cambiato: “non abbandonare casa”, “segna anche tu”: sempre mi ripeteva. Sono andato a rileggere pubblicazioni, articoli di giornali, ho trovato siti in internet: tutti trattano, a modo loro, della tradizione e della storia della mia famiglia. Quando non scadono in banalità, mai raccontano con verità la realtà vissuta dai miei avi. Come potrebbero, del resto, senza un contatto diretto con chi può farsi tramite della memoria!?
La storia della mia famiglia, almeno da quando è possibile raccontarla attraverso i documenti e la tradizione orale, si muove tra ostacoli, diffidenze, cautele, curiosità, scetticismo; ma anche tra riconoscimenti canonici, schiette attestazioni di stima, manifestazioni di solidarietà, riconoscente affetto. I miei antenati non erano colti, vivevano nella semplicità, poco sapevano di catechesi; della Chiesa erano sempre al servizio ma in qualche modo rivendicavano una loro discrezionalità. Erano ignoranti, come ho letto in una relazione che un vescovo di Foligno fece per una sua visita pastorale nella parrocchia di Cupoli, di cui un tempo faceva parte il mio paese, Cancelli. Nello stesso tempo però giravano il mondo perché chiamati a segnare i malati. Operatori rituali, come sono denominati da storici ed antropologi, i Cancelli, non solo giravano il mondo, ma erano parte di un “mondo”: Non v’è dubbio - ha scritto monsignor Mario Sensi - che costoro debbano intendersi quali un riflesso locale di un modello più ampio: quello di famiglie o stirpi che durante il Medio Evo vantarono, per speciale ascendenza, facoltà singolari e prodigiose. E tra queste famiglie una delle più note è la casa di San Paolo i cui discendenti erano detti paoliani: questi trasmettevano ereditariamente la facoltà di guarire i morsicati e di trattare indenni le serpi; diversamente la peculiarità dei Cancelli sta nel fatto che detti operatori rituali godono della facoltà di curare la sciatica. E tuttavia grazie anche al ritrovamento della ricetta della Pietra di san Paolo si è fatta più suggestiva l’ipotesi che la matrice degli operatori rituali di Cancelli debba ricercarsi nei pauliani, mentre allo stato attuale della documentazione non è possibile determinare se gli operatori rituali di Albaneto, di Arrone e di Colmurano, attivi sino agli inizi del (Novecento) e, in nome degli apostoli Pietro e Paolo, specializzati nella cura del mal di sciatica, siano a loro volta un riflesso di quelli di Cancelli: sta di fatto che tra questi operatori ci sono forti analogie.
Hanno girato mezza Europa ottenendo testimonianze di apprezzamento e fede. Anch’io tante volte ho accompagnato mio padre in viaggi intrapresi per esaudire questo desiderio di fede e negli ultimi tempi per varie malattie, anche per quelle non ischiatiche. Credo che di fronte alla malattia non sia vero che la gente “si vada attaccando su tutto” come molti dicono (anche uomini di Chiesa): in tanti malati ho notato pura convinzione di Fede. Quanti hanno richiesto questa testimonianza di Fede appartengono a vari ceti sociali e professionali: avvocati, preti, primari d’ospedale. Il convincimento di mio padre (e di quelli che lo avevano preceduto) era che i malati devono essere sempre accolti, non possono esserci discriminazioni. La malattia è dolore, sofferenza, è un momento della vita dell’uomo in cui sembra che la materia sia squassata da un combattimento, che vi sia un conflitto tra il corpo e lo spirito, e come i nostri antichi hanno accolto i Santi, anche tu devi accogliere chi ti chiede. Nessuno deve pagare e nessuno ti deve nulla.
Quando, secondo la tradizione, gli Apostoli Pietro e Paolo sono entrati nella casa dei nostri avi (oggi la cripta del santuario) sono stati accolti ospiti, non gli è stato richiesto niente, sono ripartiti ed hanno donato di guarire, ed hanno guarito in nome di Dio. “Tu fai questo e non chiederti il perché” diceva mio padre Marino; “fai il tuo lavoro, quando uno ti chiede, dai”. I Cancelli hanno seguito quello che era stato tramandato loro oralmente, ed hanno seguito quello che gli veniva insegnato. Hanno testimoniato la loro tradizione incuranti di ciò che gli veniva ordinato dalle autorità ecclesiastiche. Poco dopo il Concilio di Trento, i Cancelli hanno trovato nel vescovo di Foligno Mario Antonio Bizzoni un ostacolo fortissimo, infatti proibì a questa famiglia - racconta Ludovico Iacobilli, storico seicentesco - che non facessero più questa funzione, dubitando che non fosse superstizione. Per volontà di Dio e per i meriti del suo diletto apostolo san Paolo che loro invocano, vennero li dolori gravissimi di sciatica a esso vescovo, il quale, costretto dal male, mandò a chiamare uno di quella stirpe e lo pregò a dir sopra quel dolore la solita oratione, come egli fece e cessarono i dolori. Il vescovo accortosi che era virtù divina li concesse facoltà di poter proseguire quanto avanti facevano.
Si è scritto di un conflitto tra l’autorità ecclesiastica e gli operatori rituali di Cancelli, e questo è stato; ma i miei avi dopo qualche decennio hanno ottenuto di costruire un santuario. Lo hanno potuto fare con le offerte ricevute in ringraziamento dei benefici ottenuti per intercessione degli Apostoli. Ritengo questa una grande testimonianza di Fede. Nel ripensare, riflettere sull’autenticità di questa tradizione rivedo i gesti dei nonni, ricordo gli zii che entravano nella cripta del santuario, quella che da sempre sentiamo come l’abitazione originale dei miei avi pastori (così: pastori, questa è stata una millenaria società pastorale), e segnavano (per spiegarmi: con il segno della croce), testimoniando e ricordando questo evento d’accoglienza e di ospitalità. E in quel momento in cui lo facevano diventavano altri, altro, si trasformavano, in quel momento diventavano quasi sacerdoti mentre si facevano il segno di croce, eppure pochi minuti prima erano a tagliare legna, a fare carbone o avevano condotto a pascolare le pecore. Giuseppe, Pietro, Giovanni, Guerrino, Lorenzo, Luigi: tutti erano mossi da una grande convinzione: non importava se la gente era curiosa o titubante, scettica; non importava quale fosse il suo male; in quel momento tu dovevi corrispondere, testimoniare qualcosa di grande…gli Apostoli…Dio. E tutto doveva rivolgersi a Lui. 

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Questo è quello che hanno fatto i miei avi e non era importante per loro l’evento, il miracolo se così si può chiamare: la gente era venuta per testimoniare la fede e quanto avveniva non era opera loro: “Ringraziate gli Apostoli, Dio” dicevano ai pellegrini; pregavano e poi tornavano nei campi, ai loro animali. Mi ricordo che un giorno (avevo otto o nove anni) vennero a farsi segnare dei signori, e arrivarono con una della prime macchine che saliva a Cancelli, ed un signore che non poteva camminare fu fatto sedere su di una sedia ed in due lo trasportarono alla cripta. Lo accompagnò in chiesa mio zio Pietro, lo segnò, pregò insieme a loro e ad un certo momento il signore della sedia si alzò ed incominciò a camminare. Tutti erano sorpresi: chi diceva che era un miracolo, chi pregava, chi faceva un gran trambusto; io guardavo zio Pietro che, come se non fosse successo niente, uscì di chiesa. Sulla porta, uno gli disse: “Si è guarito”, e lui rispose: “Ebbè! Non era necessario un miracolo ma quello che è nelle cose della vita, Dio decide ed avviene. Che c’era di anormale avveniva da secoli, quel signore che era venuto a fare, se non ad essere guarito. E Dio lo fa perché è Grande.”
I miei non si meravigliavano di alcuni fatti che io stesso posso testimoniare: era la preghiera, la fede dei pellegrini che dava sollievo e guariva. Questa concretezza interiore dei miei antenati, così semplice e meravigliosa, mi fa riflettere e mi fa dire che quello che è stato fatto da questi uomini per secoli, uomini che hanno vissuto con semplicità, è stata una testimonianza di una grande fede. Il rapporto diretto con la natura e con Dio li rendeva così. Che c’è di storico, di scientifico da spiegare: si nasce e si resta semplici e veri. Ho sempre sentito dire dai miei: “Pregate”. Loro avevano poco tempo per pregare, quando pregavano? Erano sempre nei boschi, nei campi, sui monti e molte volte scappava loro qualche parola di troppo! La fatica e lo scontro con l’imprevedibile li esasperava e li portava a perdere la calma.
Papà andava sempre ad accendere la lampada nel santuario, lo faceva Giuseppe, Pietro; zio Mandino andava a riprendere le mucche dal pascolo sulla “Cereria”. C’era Giuseppe che pascolava le pecore, stava seduto su una pietra. Andavo da lui e vedendolo silenzioso e pensieroso gli chiedevo che stesse facendo, e brusco mi rispondeva: “Stai zitto, penso e prego”. Giuseppe era di carattere calmo, buono, disponibile e non si arrabbiava mai. Ma nel momento del pregare e della riflessione era intoccabile. La tradizione dei Cancelli è questa, uomini autentici che hanno vissuto momenti duri, in lotta con gli eventi della natura e della realtà, ma sempre hanno testimoniato la loro tradizione e la loro fede. Non tutti sono stati coerenti ma quelli che sono rimasti a Cancelli hanno sempre difeso la loro tradizione e non lo hanno fatto per lucro.
Io non ho certezze storiche sul passaggio o sulla predicazione di San Pietro o San Paolo sui nostri monti; ma in questa tradizione che mi investe in prima persona e della quale ho una ferma, personale convinzione, sono segni che sono rimasti fermi nel tempo e che le danno forza e autenticità: la benedizione dietro le spalle, l’intensità da parte di chi compie l’atto del benedire ma anche di chi lo riceve, la continuità della stirpe almeno dalla seconda metà del Duecento, la presenza continua della linea maschile. Non vi sono documenti scritti prima del mille, ma i muri della vecchia abitazione della famiglia, la città in essere, sono lì: perché non vi può essere stato un passaggio di evangelizzazione? Perché i Cancelli non potevano essere sciamani del popolo Umbro convertitisi al Cristianesimo? Gli Apostoli non andavano a predicare tra i vari gruppi di schiavi che erano stati deportati dai romani in Italia per coltivare le loro terre? Uno storico tempo fa mi disse che su questi monti per coltivare farro e miglio, i romani avevano formato una colonia di schiavi venuti dall’Anatolia. Padre Cirillo Stavel, monaco benedettino cecoslovacco, vissuto per alcuni anni all’abbazia di Sassovivo, era convinto della venuta di uno degli Apostoli a Cancelli perché la benedizione è un segno di saluto in occasione di una partenza che il patriarca ebraico faceva. Nella Bibbia vi sono molte espressioni e segni che sono simili e allora perché non è possibile che uno degli Apostoli sia passato a Cancelli?

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Giovan Battista Cancelli nel segnare il papa Pio IX che lo aveva chiamato all’uopo a Roma alla domanda del santo Pontefice: “Che cosa devo fare?”, diede una risposta incredibile: “Abbiate fede”. I miei avi sostenevano di non essere guaritori, terapeuti o altro; hanno sempre rifiutato tutte le etichette che gli venivano attribuite. Il santuario non è un luogo della medicina, è un luogo dello Spirito, in cui ricercare la interiorità della persona che cammina verso l’incontro con Dio. Perchè meravigliarsi? Ammiriamo il mutare delle stagioni, e perché stupirsi se un albero che sta per seccare, con l’acqua e il letame rigermoglia? I mali dell’uomo nel corpo e nello spirito hanno bisogno di cura ed attenzione, soprattutto con uno stile di vita per star bene. E’ un miracolo? E’ un segno di Dio? E’ il nostro essere in armonia con Dio a volte anche a margine delle istituzioni, anche di quelle religiose, in cui siamo inseriti.
Molte volte ho accompagnato mio padre (non guidava la macchina) a segnare malati in diverse località e cercavo di convincerlo che non era possibile sempre, avevo troppi impegni. Ma lui sempre diceva che si doveva fare. Papà non chiedeva mai niente, nemmeno le spese per il viaggio; accettava quello che gli offrivano: molte volte era vino, olio, prodotti della terra. Un giorno gli ho fatto notare che eravamo nel Ventesimo secolo e che la benzina non era acqua; “Stai zitto, non capisci”, mi rispose rudemente. Era perentorio e su questi argomenti non accettava discussione. Una volta, molti anni fa, di ritorno da uno di questi viaggi, papà aprì una busta che gli avevano dato e dentro vi erano cinquantamila lire. “Papà ma è tanto!” gli dissi meravigliato. “Ecco non devi chiedere niente. Uno ti dà niente, uno ti dà quello che può. San Pietro e San Paolo sanno far bene”, mi rispose dolcemente. A questa visione delle cose nulla si può obiettare; è attuare la tradizione: i miei avi hanno dato quello che avevano, non hanno chiesto ricompensa; i Santi hanno lasciato il segno.
2. La tradizione trasmessa di padre in figlio racconta che nel nostro villaggio esisteva una volta solo un’abitazione in cui i miei antenati vivevano. Erano poveri, avevano un piccolo gregge e vivevano dei pochi raccolti che riuscivano a mettere nella dispensa. La famiglia era composta dai genitori e da sette figli e tutti vivevano in questi pochi muri con i loro animali. Una sera sul tardi due uomini bussarono alla loro porta e chiesero la possibilità di essere ospitati: “Almeno un riparo dal freddo”. Questo perché le porte della città vicina erano chiuse e non avevano ottenuto ospitalità. Erano gli Apostoli. Il capo famiglia spalancò le braccia dicendo che non avevano una stanza per gli ospiti, ma solo una cucina dove vivevano, mangiavano e dormivano insieme. I due dissero che andava bene. Gli offrirono allora quello che avevano. Mangiarono quello che gli fu messo innanzi: “una crescia di farro e di erbe, del miglio”. Si riposarono nella grande cucina ed al mattino ripresero il loro viaggio.
A questo punto la leggenda presenta varie versioni: si racconta che sentendo nella notte le sofferenze del mio avo capofamiglia con forti dolori di ossa, “isciatici” o altro lo guarirono e lasciarono come dono per l’ospitalità ricevuta il “segno”:tutti coloro che avranno fede in Gesù verranno guariti. Si racconta ancora che ripartiti ed arrivati nel luogo dove oggi sorge la “Maestà dei Cancelli” i due misteriosi pellegrini dissero tra loro che non avevano ringraziato per l’ospitalità ricevuta, quindi tornarono e guarirono il capostipite e dissero ai figli maschi che dovevano ripetere quel “segno” sui malati e chi avesse avuto fede in Gesù, veniva guarito. E nei secoli tutti i maschi della famiglia Cancelli avrebbero avuto questo compito. 3. Riteniamo per lunghissima tradizione che la casa antica dei Cancelli esista veramente e gli interventi di restauro hanno fatto emergere le antiche, modeste murature sotto l’attuale cripta del santuario. Certamente erano stalle per il ricovero degli animali, attivate fino all’intervento realizzato per conglobare la cripta - cioè la casa dei Cancelli - con la chiesa costruitavi sopra nel Settecento. Le murature hanno fatto capire che più volte nei secoli questa abitazione ha subìto modifiche perché le pietre hanno i segni di varie ricostruzioni; le murature presentano conci di archi a tutto sesto e quindi la casa esisteva certamente prima del Mille. Dietro la cripta, sul lato orientale, si trova una stanza nella cui muratura è emersa nell’inglobato della struttura che esisteva, la cucina del Quattrocento; è presente nel muro un catino in coccio (serviva per fare il bucato con la cenere) ed il broccato con la buca ove venivano conservati l’olio, l’aceto ed il sale. La casa che rispecchiava questo sistema di costruzione era la casa dei Partenza, un’abitazione del Quattrocento con mobilia del Cinquecento, ormai distrutta dagli interventi degli anni Novanta.
Ove oggi sorge il cimitero, doveva esistere un santuario e vari edifici di età antica, oggi sepolti in parte dalla struttura cimiteriale in parte dagli interrati. Dove si trova l’attuale monumento ai deportati e combattenti della Resistenza, voluto da monsignor Pietro Arcangeli deportato a Dacau, si trovava un incrocio viario segnalato dalla cosiddetta Maestà dei Cancelli, una fresca cappellina ornata da decorazioni pittoriche seicentesche, inglobata nel nuovo edifico. L’incrocio è dato dalla confluenza sulla vecchia montanara, un’importante strada delle pecore, che collegava la porzione folignate della Valle Umbra con molteplici spazi: con la via della Spina verso Sellano, la valle del Vigi, Norcia; oppure prendendo per Scopoli, la collegava con la via Lauretana che saliva nell’altopiano di Colfiorito, per poi proseguire verso Loreto o verso i pascoli del Vissano; oppure collegava Cupoli, con Ponze, Trevi consentendo di accedere alla Flaminia verso i pascoli delle Maremme. Questo punto è anche il raccordo naturale di tutti i collegamenti delle varie frazioni montane di Cascito, Acqua Santo Stefano, Casale, Roviglieto e gli altri villaggi limitrofi.